Perché l’Italia è così filorussa
Nelle ultime settimane in Italia si è assistito a un dibattito molto acceso sulle responsabilità della guerra in Ucraina:
cioè di chi sia la colpa del conflitto, cosa avrebbe dovuto fare diversamente l’Occidente, in particolare la NATO e gli Stati Uniti, e cosa ha sbagliato la Russia. A differenza di quello che sta avvenendo in molti altri paesi dell’Europa occidentale, questo dibattito, che si sta tenendo per buona parte nei talk show televisivi, sta dando uno spazio enorme a posizioni cosiddette “filorusse”, più o meno esplicite. Se da una parte è un fenomeno spiegabile da un certo modo di fare televisione e informazione in Italia, subordinato spesso a una spettacolarizzazione del dibattito tra tesi contrapposte e a un’interpretazione molto discutibile del concetto di par condicio, dall’altra ha radici più profonde: è sintomo di un certo grado di russofilia dell’opinione pubblica e della politica italiana, evidenziato in diverse occasioni da media e organismi internazionali. Nel 2017 un rapporto del Wilfried Martens Centre, centro studi del Partito Popolare europeo, inseriva l’Italia, con Grecia e Cipro, tra i «collaboratori del Cremlino: [gli italiani] non si sentono minacciati dalla Russia e fanno campagna per un miglioramento delle relazioni, spesso sostenendone gli obiettivi di politica estera a dispetto di ogni atrocità in virtù di presunti interessi economici». Un anno fa, nell’aprile 2021, l’Italia era seconda solo alla Grecia in Europa per “fiducia in Putin”, secondo il sondaggio del Pew Research Center, rispettato centro studi statunitense con sede a Washington. La quota di fiducia era al 36 per cento, contro una media europea del 22 (Regno Unito al 21, Svezia al 14). Oggi un nuovo rilevamento segnerebbe probabilmente un crollo dell’approvazione, ma è altrettanto probabile che questa percentuale rimarrebbe più alta che nella stragrande maggioranza dei paesi dell’Europa occidentale. A dispetto di un totale allineamento del governo di Mario Draghi alle decisioni dell’Unione Europea e degli alleati della NATO, infatti, in Italia discussioni e distinguo su come e quanto condannare la Russia sono ricorrenti, non solo per esigenze di “spettacolo” e contraddittorio all’interno dei talk show televisivi. Rispetto a quello di altri paesi dell’Europa Occidentale, il sistema mediatico italiano pare più permeabile alla penetrazione della propaganda del Cremlino, mentre i legami con la Russia risultano più resistenti anche in un momento di totale contrapposizione a livello ufficiale. I motivi di questa minoritaria ma diffusa russofilia possono essere ricercati (più che nell’interazione di lungo corso a livello culturale, artistico e letterario) nelle frequenti relazioni e vicinanze politiche con la Russia e con il suo presidente Vladimir Putin; nei residui di una storica forte opposizione al Patto Atlantico, il patto fondativo della NATO; e nella presenza di forti interessi economici la cui sopravvivenza dipende dal mantenimento di buone relazioni fra i due paesi. La vicinanza fra Russia e Italia a livello politico viene comunemente fatta risalire alla presenza nel nostro paese dal Secondo dopoguerra fino agli inizi degli anni Novanta del principale Partito Comunista europeo. In realtà le relazioni tra Italia e Unione Sovietica cominciarono già prima, durante il periodo fascista, quando nonostante la distanza politica fra i due regimi l’Italia di Benito Mussolini riconobbe (1924) e poi visitò ufficialmente, con il viaggio di Italo Balbo a Odessa (1929), l’Unione Sovietica, fino a concludere un patto italo-sovietico nel 1933. Dopo la Seconda guerra mondiale, combattuta su fronti opposti, le relazioni tra i due paesi ricominciarono con l’intermediazione del Partito Comunista (PCI) di Palmiro Togliatti, riferimento del regime sovietico nell’Europa occidentale e dirigente del Comintern, l’organizzazione internazionale dei partiti comunisti. La politica di Mosca fu a lungo modello del PCI in Italia, nonostante la presa di distanze dopo l’invasione della Cecoslovacchia nel 1968. Quando i carri armati sovietici e del Patto di Varsavia misero fine alla Primavera di Praga e al processo di liberalizzazione del governo ceco, ribadendo la “sovranità limitata” dei paesi satelliti di Mosca, i partiti comunisti occidentali vissero un momento di crisi e di discussione interna. In Italia però il reale allontanamento dalla politica sovietica avvenne solo nel 1975, con il progetto dell’eurocomunismo del PCI, cioè uno sviluppo in senso riformista e democratico della dottrina marxista, più lontana dalla sua coniugazione sovietica. Prima di quel momento però, e per tre decenni, i rapporti fra il Partito Comunista italiano e l’Unione Sovietica furono costanti e intensi e inclusero viaggi, lo studio della lingua, la creazione di corsi di laurea con focus sulla cultura russa in varie università italiane. La contrapposizione con il modello “borghese” e con l’adesione al progetto capitalistico occidentale promosso dagli Stati Uniti era totale e coinvolgeva anche parte dei movimenti pacifisti. Questi anche in decenni successivi mantennero la NATO e la politica interventista degli Stati Uniti come principali obiettivi da contrastare. Giovanna De Maio, ricercatrice alla George Washington University di Washington DC ed esperta di relazioni italo-russe, la definisce «una componente sociologico-culturale». «Una parte dell’opinione pubblica italiana è da sempre molto ostile all’interventismo americano e ha sempre maldigerito il rapporto con gli alleati atlantici e l’impegno al loro fianco nelle varie operazioni militari. La Russia in questa concezione diventa così un’alternativa che, con tutti i suoi difetti, non si macchia dell’ipocrisia di cui accusano gli Stati Uniti», ha detto De Maio. Alcuni dei “riflessi condizionati” di quella contrapposizione, proseguita dopo il crollo dell’Unione Sovietica, sono visibili nella posizione attuale del pacifismo “né con la NATO né con Putin”. Allo stesso modo alcuni osservatori individuano nella poco chiara posizione l’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia sulla guerra (e in particolare del contestato comunicato sulla strage di Bucha) un retaggio di una vicinanza fra la sinistra italiana e una visione alternativa, in parte filo-sovietica e ora filo-russa, della politica internazionale. In questo senso, il forte e diffuso sentimento di antiamericanismo sembrerebbe portare una parte della sinistra, anche a distanza di decenni dalla precedente contrapposizione dei due blocchi, a schierarsi dalla parte della Russia, vista come modello alternativo anche minimizzandone errori e colpe. Lo storico Andrea Graziosi, uno dei maggiori esperti di storia sovietica e russa moderna e contemporanea, ha aggiunto: «Penso che la componente più importante sia l’ignoranza, che però è non solo perdonabile, ma anche naturale: la gente si occupa delle cose ‘lontane’ quando hanno un impatto decisivo. Per questo l’opinione pubblica su Russia e Ucraina resta legata a immagini del passato: la grande cultura russa di fine Ottocento, la rivoluzione del 1917, il posizionamento nella Seconda Guerra mondiale, con la Russia a combattere il nazismo e il nazionalismo ucraino su posizioni collaborazioniste. Dopo chi non ha motivi specifici se ne è occupato poco. Fa impressione però che non si siano informate nemmeno le classi dirigenti italiane, di ogni governo: il pensiero di Putin non era misterioso».
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