La guerra di Netanyahu
AL QUDS - Dietro all’ultima brutale aggressione contro i palestinesi nella striscia di Gaza sembrano esserci, oltre alle consuete ragioni legate all’oppressione di un intero popolo, delicate questioni politiche che riguardano il futuro del primo ministro, Benjamin Netanyahu.
Attorno alla guerra potrebbe infatti decidersi anche la sorte del prossimo regime di Tel Aviv, per il quale sono in corso complicatissimi negoziati che appaiono ora appesi a un filo. Sul campo, nel frattempo, le vittime palestinesi sono già svariate decine, in gran parte civili e molti bambini, mentre la prospettiva di un cessate il fuoco appare tutt’altro che a portata di mano.
La nuiva escalation è in pratica iniziata poco prima del probabile annuncio dell’accordo raggiunto tra i due leader dell’opposizione, Yair Lapid e Naftali Bennett, per provare a far nascere il primo esecutivo non guidato da Netanyahu dal 2009. Per avvicinarsi a questo risultato era stato necessario conciliare le posizioni spesso diametralmente opposte dei sei partiti candidati a far parte della coalizione del cosiddetto “esecutivo del cambiamento”.
I drammatici sviluppi di questi giorni sembrano dunque rispondere a un disegno deliberato che Netanyahu e i suoi alleati potrebbero avere studiato a tavolino per le ragioni appena esposte.
Ripercorrendo anche sommariamente gli eventi delle ultime settimane che hanno portato all’esplosione delle violenze, è facile dedurre la natura provocatoria delle decisioni del regime di Netanyahu e delle forze di sicurezza, prese allo scopo preciso di provocare la reazione dei palestinesi e di Hamas.
Dall’inizio del mese di Ramadan il 12 aprile scorso, è stato spesso deciso il dispiegamento della polizia nella Spianata delle Moschee ad al Quds, Gerusalemme, vietato dal diritto internazionale, quasi sempre giustificato dalla necessità di prevenire assembramenti vietati dalle norme anti-COVID. Queste misure avevano provocato accese proteste, accolte con il ricorso puntuale alla violenza da parte delle forze di sicurezza.
I due episodi più gravi si erano verificati tra lo scorso fine settimana e lunedì. Nel primo caso, la polizia di Israele aveva fatto irruzione nella moschea di Al-Aqsa attaccando indiscriminatamente i palestinesi in preghiera, facendo centinaia di feriti.
Lunedì, invece, la repressione era scattata in seguito alle proteste palestinesi contro la manifestazione annuale degli ultra-nazionalisti israeliani per festeggiare l’occupazione di Gerusalemme Est nella guerra del 1967.
In entrambi i casi, le giustificazioni di Israele sono state a dir poco pretestuose, visto che la brutalità e la violenza a cui ha assistito tutto il mondo non possono essere legittimate dal lancio di pietre o di altri oggetti di una popolazione oppressa in rivolta.
Le proteste dovute a questi eventi si sono saldate a quelle scatenate dai fatti del quartiere arabo di Sheikh Jarrah a Gerusalemme Est, legati a ordini di sfratto emessi illegalmente dalla giustizia israeliana nei confronti di decine di famiglie palestinesi che dovrebbero lasciare le loro case e le loro terre ai coloni ebrei.
A tutto ciò vanno aggiunti anche i contorni della già ricordata “Marcia delle Bandiere” che commemora l’annessione di Gerusalemme Est. Viste le tensioni già alle stelle, da più parti era stato chiesto di cancellare una manifestazione che include il passaggio attraverso i quartieri arabi di Gerusalemme. Anche i vertici delle forze di sicurezza israeliane sembra avessero fatto pressioni in questo senso sul governo, ma Netanyahu aveva al contrario dato il via libera a una dimostrazione ultra-provocatoria. Solo dopo l’esplosione dei primi scontri era stata ordinata una modifica al percorso della marcia, in modo da evitare i quartieri arabi.
La situazione è poi precipitata con l’ultimatum lanciato da Hamas a Israele per ritirare le forze di sicurezza dalla Spianata delle Moschee. All’ovvio rifiuto, sono partiti i razzi da Gaza in direzione del territorio dello stato ebraico, a cui Israele ha risposto con la consueta violenza spropositata, possibile come sempre grazie all’appoggio incondizionato degli Stati Uniti e dei governi europei.
Se nei precedenti conflitti, nonostante lo spaventoso bilancio di vittime civili palestinesi, Netanyahu aveva mostrato un relativo pragmatismo e la volontà di non superare un certo limite, la retorica e le azioni di questi giorni lasciano intravedere un’attitudine in parte differente, con ogni probabilità proprio per creare una situazione infuocata che gli permetta di raccogliere i benefici politici sperati. Il premier israeliano ha infatti finora respinto le offerte di mediazione dell’Egitto per una possibile tregua, mentre è stata ordinata la mobilitazione di migliaia di riservisti e viene ripetutamente minacciata un’ulteriore escalation dell’aggressione contro Hamas e la striscia di Gaza.
Potete seguirci sui seguenti Social Media:
Instagram: @parstodayitaliano
Whatsapp: +9809035065504, gruppo Notizie scelte
Twitter: RadioItaliaIRIB
Youtube: Redazione italiana
VK: Redazione-Italiana Irib
E il sito: Urmedium