Davos: l’Europa completamente ignorata da Trump
È apparso preceduto da una banda di suonatori di ottoni in costumi dell’Ottocento, ma stavolta non è stata colpa sua. Almeno questa non è una gaffe di Donald Trump.
È solo che dieci giorni fa Klaus Schwab, padre-padrone del World Economic Forum, era stato a un concerto dell’orchestra di Friburgo e il mattino dopo il direttore si è trovato una chiamata della moglie di Schwab con una strana proposta: suonare per il presidente degli Stati Uniti, quando avrebbe parlato a Davos. Fra tutti i brani proposti, gli Schwab hanno scelto la Marcia di Coburgo «la più solenne») ed ecco così ieri alle due Trump sull’attenti davanti a una platea di un migliaio di banchieri e uomini d’affari. Pochi minuti di musica, e il presidente ha iniziato a leggere da due schermi trasparenti un discorso che fin dalle prime parole ha tradito il nome del vero autore. «Credo nell’America — ha detto quasi subito Trump —. Come presidente degli Stati Uniti metterò sempre l’America al primo posto, esattamente come gli altri leader dovrebbero mettere i propri Paesi al primo posto. Ma America First non significa America isolata». Quest’ultima frase è stata come un’impronta digitale: quella di Gary Cohn, l’uomo che era già venuto a Davos un’infinità di volte come presidente di Goldman Sachs e ieri ci è tornato da consigliere economico di Trump. Sono esattamente le parole che Cohn stesso aveva affidato al New York Times per un articolo del giorno prima, il cui senso è chiaro: sminare la retorica sciovinista del primissimo Trump, quella che l’aveva portato alla Casa Bianca promettendo barriere e muri nel commercio e nell’immigrazione. Un anno e mezzo dopo, Trump è un presidente marcato stretto nel centro congressi di Davos da tre stagionati uomini bianchi espressi dal Big Business: oltre a Cohn, il segretario al Tesoro Steven Mnuchin (ex Goldman anche lui) e l’ex capo di ExxonMobil Rex Tillerson.