Articolo, conflitto in Ucraina: cosa ci dice il precedente della Jugoslavia?
(last modified 2022-07-11T19:18:43+00:00 )
Lug 11, 2022 21:18 Europe/Rome
  • Articolo, conflitto in Ucraina: cosa ci dice il precedente della Jugoslavia?

KIEV - La guerra in Ucraina è scoppiata a trent’anni dall’inizio di quella in Bosnia-Erzegovina, il capitolo più lungo e violento del processo di dissoluzione della Jugoslavia.

I due conflitti si inseriscono in categorie spazio-temporali e geopolitiche distinte e, sebbene la guerra in Ucraina sia appena alle fasi iniziali, quella nella ex Jugoslavia, con particolare riferimento al periodo 1991-1995, offre il pretesto per un’analisi comparata che, possibilmente, aiuti a comprendere meglio l’invasione russa. Esistono, pertanto, delle analogie e delle differenze negli elementi che compongono le due guerre, come gli schieramenti in campo, il bagaglio retorico che accompagna, e sostiene, gli sviluppi bellici, così come gli allineamenti diplomatici a livello internazionale.

Lo squilibrio di forze Il conflitto in Ucraina mostra già un elemento in comune con la guerra che deflagrò in Jugoslavia: lo squilibrio delle forze in campo. Anche se ufficialmente la Russia continua a negare la natura degli eventi in corso, non definendoli “guerra” o “invasione” preferendo l’espressione “operazione speciale”, l’analogia con le prime fasi del conflitto jugoslavo riguarda la maggior grandezza militare dell’aggressore, sia in termini di soldati effettivi, che di armamenti, con l’esercito russo oggi e quello jugoslavo ieri considerati tra i più potenti al mondo.

Tuttavia, una differenza con la guerra in Ucraina sta nel fatto che, dopo un iniziale coinvolgimento dell’esercito jugoslavo in Croazia e nelle prime fasi della guerra in Bosnia, la guida delle operazioni belliche dal lato serbo venne assunta dai rispettivi eserciti locali, con un graduale disimpegno dei vertici militari di Belgrado. Questo avvenne in virtù della dissoluzione ufficiale della federazione socialista nell’aprile del 1992, quando Serbia e Montenegro costituirono la Repubblica Federale di Jugoslavia.

Una mossa che Belgrado sfruttò nel tentativo di dimostrare alla comunità internazionale che quella in corso non era una guerra di aggressione, bensì civile, nonostante il regime di Slobodan Milosevic appoggiasse direttamente i serbi nelle repubbliche secessioniste. Questi infatti continuarono ad usufruire delle basi e degli armamenti jugoslavi che erano presenti in quei territori e a cui vennero cambiati i vessilli, determinando, fino alla fine del conflitto, un grande squilibrio di forze.

Un’altra differenza sta quindi nella predominanza del ruolo di comando politico e militare delle leadership dei serbi di Croazia e Bosnia rispetto a Belgrado, che nella fase finale del conflitto riuscì a “controllare” sempre meno le leadership serbe locali, anche se ne assunse la rappresentanza diplomatica fino agli accordi di Dayton del 1995. Lo conferma il fatto che le responsabilità di diversi crimini di guerra e contro l’umanità in Bosnia vennero ascritte in misura maggiore a leader e comandanti serbi locali, come l’ex presidente della Republika Srpska Radovan Karadzic e il generale Ratko Mladic, rispetto ai vertici statali di Serbia e Montenegro.

In Ucraina, al momento, il ruolo di comando è più verticistico e riconducibile direttamente a Mosca, piuttosto che a rappresentanti locali. Anche a livello mediatico, la rilevanza politico-militare delle leadership dei territori secessionisti del Donbass sembra al momento molto limitata rispetto al ruolo del Cremlino, che si pone dunque come unico artefice della strategia d’invasione dell’Ucraina. Una relazione che, come nel caso jugoslavo, potrebbe cambiare col proseguire del conflitto qualora Mosca ritorni a combattere una guerra per procura, come ha fatto in Donbass dal 2014.

La retorica di guerra Una delle questioni più interessanti è relativa all’armamentario ideologico e retorico che ha accompagnato l’inizio di entrambe le guerre. Come detto, nella guerra in corso viene categoricamente evitata la parola “guerra”, obbligando la Russia stessa ad un’ambiguità diplomatica a livello internazionale, e ad una negazione della realtà a livello interno, dove reprime le proteste “contro la guerra” e limita fortemente l’informazione. Inoltre, ciò che merita particolare attenzione è che fino alla vigilia del conflitto il presidente russo Vladimir Putin non aveva fatto ricorso alla consueta retorica bellica, utile a sostenere la chiamata alle armi e ad incentivare il supporto politico interno a favore delle operazioni militari.

In altre parole, il Cremlino ha fatto uno scarso e tardivo uso della narrazione nazionalista che, nella tradizione degli stati nazionali, ha per secoli messo un popolo contro l’altro, affinché si giustificasse l’aggressione di paesi vicini. Questo sarebbe in parte dimostrato dai casi riportati di soldati russi che spontaneamente si arrendono, abbandonano le armi, se non addirittura si scusano per l’aggressione. Ucraina e Russia, anche dopo la fine dell’URSS e in virtù degli stessi interessi di Mosca, almeno fino al 2014 sono state intese come “nazioni sorelle”.

Alcune truppe russe non capiscono quindi la necessità di attaccare una popolazione a cui sono sempre stati legati e con cui condividono diversi caratteri storici e culturali, nonché religiosi.Nel 1991, invece, quando iniziò la guerra in Jugoslavia, il terreno per lo scontro armato era fertile da anni, anche tra i suoi popoli costituenti. Quando la crisi economica della federazione cominciò a minare le basi dell’“unione e fratellanza”, i singoli leader nazionali iniziarono ad accusarsi a vicenda, esacerbando la dialettica etnonazionalista. L’iniziale indipendentismo economico di Slovenia e Croazia si arricchì della componente nazionalistica culturale e religiosa che, retoricamente, contrappose i rispettivi popoli, cattolici e presentati come “mitteleuropei”, all’ortodossia serba e a un’identità, quella balcanica, orientalisticamente intesa come arretrata e molto distante dalle società di Lubiana e Zagabria.

Dal canto loro, i musulmani di Bosnia si trovarono, nell’etnopolitica che andava instaurandosi in quegli anni, schiacciati tra le mire politiche e militari di vecchie ideologie nazionaliste riassumibili nei concetti di “Grande Serbia” e “Grande Croazia”. Il caso della Bosnia richiama però molto anche quanto dichiarato da Putin nel discorso che ha spianato la strada ai carri armati russi: l’Ucraina non sarebbe uno stato, gli ucraini non sarebbero una nazione e la statualità ucraina sarebbe finzione e frutto della politica russa.

Un’argomentazione, falsa, che serve gli scopi bellici allo stesso modo di come il nazionalismo gran-serbo negò l’identità bosniaca, nonché la possibilità di una Bosnia-Erzegovina indipendente. Una narrazione, politicamente forzata, ancora presente nei circoli nazionalisti. Quando i popoli della Jugoslavia furono portati alle armi, dunque, le contrapposte mobilitazioni militari venivano da anni di manipolazioni narrative e strumentalizzazioni storiche che contribuirono a rendere particolarmente efferati i primi mesi di guerra.

Infine, ciò che i due conflitti condividono ampiamente, relativamente al bagaglio retorico di guerra, è il ricorso alle categorie della Seconda guerra mondiale. Le giustificazioni di Mosca oggi, come quelle di Belgrado ieri, si sono concentrate nel presentare il nemico con la definizione di “nazista”. La propaganda russa sostiene di voler “denazificare” Kiev, ovvero di volerla liberare, facendo quindi ampio ricorso alla mitologia sovietica, di cui Putin oggi si vorrebbe porre in continuazione storica, nonché all’eroismo della “Grande guerra patriottica” che mise fine agli assedi nazisti durante la Seconda guerra mondiale.

Similmente, croati e serbi impiegarono opposte identificazioni la cui matrice è propria del periodo dell’occupazione nazifascista del Regno di Jugoslavia. Nel 1991 i croati vennero etichettati come “ustascia”, ovvero i collaborazionisti fascisti, e il loro indipendentismo venne inteso come il progetto di ricreare una Nezavisna Drzava Hrvatska, cioè lo stato fantoccio che tra il 1941 e il 1945 comprendeva anche l’odierna Bosnia-Erzegovina. Viceversa, i serbi vennero identificati come “cetnici”, riprendendo il nome delle truppe fedeli alla monarchia serba che collaborarono con gli occupatori.

Va detto che talvolta sono state le stesse autorità di Belgrado e di Zagabria a ripescare volontariamente simbologie e terminologie della Seconda guerra mondiale, riabilitando personaggi e reinterpretando episodi storici alla luce della guerra degli anni Novanta per consolidare la propria legittimazione politica.Quanto all’attuale confrontazione tra Ucraina e Russia, una simile strumentalizzazione della storia potrà essere analizzata meglio al termine del conflitto o in una sua fase più avanzata.

Anche se, pure qui dal 2013 alcuni processi di riabilitazione di personaggi controversi nonché la rivisitazione di certi episodi storici hanno contribuito ad alimentare i due contrapposti armamentari retorici. Un mondo diverso, ri-NATO Nel 1991, le relazioni internazionali stavano vivendo una stagione di rapidi sconvolgimenti e riforme. La divisione dei blocchi era appena finita e l’Unione Sovietica cessava di esistere. Il trattato di Maastricht, un anno dopo, pose le basi dell’odierna Unione Europea.

L’Occidente per come lo conosciamo oggi era agli albori. Soprattutto, la NATO iniziava a interrogarsi sulla propria ragion d’essere. La fine della Guerra fredda l’aveva privata dell’elemento di contrapposizione: la Federazione russa, negli anni Novanta, aveva perso l’aura di potenza globale dell’epoca sovietica, le aperture al capitalismo e la successiva crisi economica ne limitarono l’attivismo sul fronte internazionale e la distensione dei rapporti con gli USA agevolò, almeno su alcuni dossier, uno spirito di collaborazione piuttosto che di competizione. La crisi jugoslava offrì all’Alleanza la possibilità di indagare la propria identità, anche trascendendo la dottrina del difensivismo.

Nei dieci anni successivi alla fine dell’URSS, tutte le missioni NATO si sono concentrate nell’ex Jugoslavia. Missioni che dimostrarono sia una rinnovata capacità militare, specie nel settembre del 1995, quando furono colpite le postazioni serbo-bosniache ponendo fine agli attacchi alle zone protette dell’ONU, sia i suoi eccessi “umanitari”, capaci di prevaricare sul diritto internazionale, come quando nel 1999 decise, senza l’avallo ONU, di bombardare la Serbia e il Montenegro per porre fine alla guerra in Kosovo.

La guerra in corso ha invece risvegliato dal torpore diplomatico l’Alleanza, di cui in tempi non sospetti in Europa si dichiarò persino la “morte cerebrale”. La differenza principale con la guerra in Jugoslavia sta però nel fatto che l’attuale crisi ha ricompattato il fronte occidentale, riassestando l’asse transatlantico e proponendo un’inedita coesione a livello UE, che all’unanimità ha subito adottato sanzioni contro il regime di Putin e ha chiuso lo spazio aereo a tutti i velivoli russi. Quando scoppiò la crisi jugoslava, invece, gli USA e la costituenda UE furono incapaci sia di coordinare una reazione comune che scongiurasse la guerra, sia di agire in modo compatto nelle sue prime fasi.

In particolare, l’Unione si divise sulle tipologie di intervento: con Berlino che appoggiò subito le istanze indipendentiste slovena e croata, mentre Parigi e Roma furono inizialmente più caute, o comunque più disposte a sentire anche le ragioni di Slobodan Milosevic. Alcune delle decisioni generate da queste contrapposizioni furono in parte contraddittorie, come quella di estendere l’embargo sulle armi a tutto il territorio della Jugoslavia, impedendo quindi anche a Sarajevo la possibilità di equipaggiare il proprio esercito. Oggi, al contrario, si discute della possibilità di armare gli aggrediti invece che di embarghi, proprio perché la natura di guerra di aggressione è – al netto della propaganda russa – innegabile.

Infine, è interessante notare che l’Occidente ritrova compattezza anche a discapito delle conseguenze economiche ed energetiche che, invece, nel caso jugoslavo, mancarono del tutto, non essendo stata la Jugoslavia così essenziale per i rapporti commerciali né per le riforniture di energia come lo è invece stata la Russia fino ad oggi. In conclusione, le due guerre sono di natura diversa ed avvengono in momenti storici del tutto differenti, con mutati rapporti di forza geopolitica. Tuttavia, quella che prima del 24 febbraio era effettivamente l’ultima guerra combattuta in Europa può offrire la possibilità di comprendere meglio quella in corso, se non altro nell’analisi delle sue interpretazioni politiche, nonché per lo squilibrio di forze che, almeno in Unione Europea, rende nuovamente attuale il dibattito sulla necessità di una difesa comune. 

 

Potete seguirci sui seguenti Social Media:
Instagram: @parstodayitaliano
Whatsapp: +9809035065504, gruppo Notizie scelte
Twitter: RadioItaliaIRIB
Youtube: Redazione italiana
VK: Redazione-Italiana Irib
E il sito: Urmedium

Tag