Italia: Jobs Act, un Referendum non basta
(last modified Sun, 18 Dec 2016 07:47:03 GMT )
Dic 18, 2016 08:47 Europe/Rome
  • Italia: Jobs Act, un Referendum non basta

ROMA- La competitività tra le imprese oggi non si gioca più sulla qualità del prodotto o sulla bravura dell’imprenditore a rimanere “forte” sul mercato grazie alla sua originalità e alle sue iniziative di marketing,

ma prima di tutto sulla diminuzione dei diritti dei lavoratori e sulla "flessibilità in uscita". Abrogare il Jobs Act è necessario ma poi occorre cambiare il campo da gioco.

Abrogazione dei voucher, ritorno quasi integrale al vecchio articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori con annessa estensione alle imprese con più di cinque dipendenti ed ancora una nuova disciplina per la responsabilizzazione delle ditte appaltanti e subappaltanti. E’ su questi tre punti che verteranno i referendum sul Jobs Act proposti dalla CGIL al fine di ripristinare “vecchi” diritti sociali che i governi precedenti – a partire da quello Monti – avevano sacrificato sull’altare della famosa quanto discussa concezione di competitività. Certo è ancora presto per farsi prendere dall’euforia proprio adesso che l’opinione pubblica e le forze politiche in generale, sulla scia dell’esito referendario del 4 dicembre scorso, continuano a discutere sull’incerta “transitorietà” del neo governo Gentiloni il quale però, durante il discorso alla Camera, ha già voluto mettere le mani avanti affermando che un “governo dura finché gode della fiducia del parlamento”. In ogni caso, dopo aver superato il vaglio dell’Ufficio centrale per il referendum, i tre quesiti sui referendum abrogativi del Jobs act passano adesso nelle mani della Corte Costituzionale la quale l’11 Gennaio 2017 dovrà pronunciarsi circa l’ammissibilità degli stessi referendum. In caso di esito positivo, al Presidente delle Repubblica Sergio Mattarella non resterà che fissare la data del referendum in una domenica compresa fra il 15 aprile e il 15 giugno. Si ritornerebbe dunque nuovamente al voto per una causa non meno importante della fatidica riforma costituzionale, anch’essa partorita dal governo di Mattero Renzi.

C’è però un piccolo problema sul quale si è consumata l’ultima polemica di questi giorni: eventuali elezioni anticipate farebbero infatti slittare il referendum in questione, in quanto la legge italiana prevede la sospensione dei termini per un anno dalla data del voto. Ed è proprio questo dettaglio che ha spinto il ministro del Lavoro Giuliano Poletti- confermato anche nella squadra del governo Gentiloni- a sottolineare la necessità di andare al voto anticipato per disinnescare l’ennesima miccia che il popolo italiano, stanco e stufo delle politiche di austerità, potrebbe riaccendere a pochi mesi dalla bocciatura della riforma costituzionale fortemente voluta dai mercati e dall’Unione Europea. Secondo Poletti infatti, nonostante il suo passo indietro per calmare la acque, “è questo, con un governo che fa la legge elettorale e poi lascia il campo, lo scenario più probabile”. Dunque abbiamo capito bene: non si vuole andare al voto perché è giusto e sacrosanto che il popolo- in ossequio al dettato costituzionale di cui all’art. 1- eserciti un suo diritto, ma anzi le elezioni servirebbero addirittura a ritardare il più possibile una decisione popolare che ancor più direttamente riguarda giovani, studenti, padri di famiglia ed il loro futuro da precari. Quando si dice, giustamente, gli eccessi della democrazia.

Ma ritornando ai tre quesiti referendari sull’abrogazione del Jobs Act – la riforma del lavoro che oltre a precarizzare lo stesso, ha gonfiato artificiosamente i numeri sull’occupazione grazie ai nuovi parametri Istat sui voucher – l’iniziativa dei sindacati prevede che il popolo italiano possa essere chiamato ad esprimersi sui tre punti dapprima elencati: licenziamenti illegittimi e rispristino quasi integrale dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, lavoro accessorio, responsabilità solidale appalti.

 “La discussione di un anno fa era tutta sull’articolo 18, ora l’articolo 18 non c’è più, significa che l’Italia ha voltato pagina sul lavoro”. Così diceva Matteo Renzi nel suo intervento al Forum Ambrosetti a Cernobbio nel 2015, vantando il fatto che l’Italia era riuscita a farlo in un solo anno mentre la Germania ne impiegò tre

Contratto a tutele crescenti e Articolo 18. Il primo quesito mira al ripristino dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori in materia di reintegro del lavoratore licenziato ingiustamente, ampliandone altresì l’applicazione alle imprese con più di 5 addetti, mentre il vecchio testo la prevedeva per le imprese con più di 15 dipendenti lasciando al di sotto di tale soglia l’obbligo di risarcimento economico. Con le ultime riforme, e soprattutto con la riforma del Jobs Act di Renzi, si è voluto invece limitare fortemente il diritto al reintegro sostituendolo con il risarcimento economico: si è voluto in poche parole facilitare i licenziamenti da parte delle imprese barattando il diritto al reintegro del lavoratore con una corresponsione economia a titolo di risarcimento per il danno subito. L’art. 18 dunque tornerebbe a tutelare tutti i casi di licenziamento illegittimo con il reintegro. Di conseguenza, come riporta il quesito citando il decreto legislativo 23/2015, verrebbe abrogato il nuovo “contratto a tutele crescenti” che ha diversamente regolamentato il vecchio contratto a tempo indeterminato prevedendo che le relative indennità risarcitorie previste variassero nella loro misura in ragione della durata della permanenza in azienda del lavoratore. Un contratto che di indeterminato non ha più nulla dato che il datore di lavoro potrebbe benissimo accontentarsi di sostituire il dipendente- una volto raggiunto il limite contrattuale oltre il quale scattano determinate tutele- con un altro, precarizzando il lavoro e facendo venire meno la qualità dello stesso.

Lavoro accessorio e voucher. Il secondo quesito chiede l’abrogazione del decreto legislativo 81/2015 che di fatto ampliava l’uso dei voucher, inizialmente previsti nel 2008 soltanto nel settore agrario, a tanti altri settori in cui si ravvisava la necessità di combattere il lavoro in nero. Il buono lavoro per le collaborazioni occasionali avrebbe dovuto servire per pagare il lavoro accessorio ed è invece diventato lo strumento d’eccellenza per eludere le norme in materia previdenziale e cancellare la maggior parte dei diritti spettanti ai lavoratori quali ferie, malattie, festivi, contributi e così via: licenziando molti dipendenti ed assumendoli giornalmente con i voucher, non solo si è permesso alle imprese di risparmiare facendo competizione al ribasso e dunque a discapito dei suoi dipendenti, ma si è anche contribuito a rendere il lavoro sempre più ricattabile (se ti va bene ti assumo così, altrimenti prendo un altro). Noi lo abbiamo sostenuto tante volte: i voucher vanno aboliti!

Responsabilità solidale appalti. Il terzo quesito chiede l’abrogazione delle disposizioni limitative della responsabilità solidale negli appalti contenute nel dlgs 276/2003, ovvero la legge Biagi: alcune norme avevano infatti limitato la responsabilità della società appaltante nei confronti della sub-appaltatrice- ovvero dell’ultima società della lunga catena- facendo dunque venire meno i diritti dei lavoratori in ambito retributivo. Si tratta di responsabilizzare la società appaltante, nel caso in cui una delle società controllate non volesse o non potesse retribuire i dipendenti, che rimarrebbero così senza alcune tutela.

Al di là di come andrà a finire, e cioè se i quesiti passeranno il vaglio della Corte Costituzionale o se ancora la consultazione slitterà a causa di un eventuale voto anticipato, c’è da dire che la proposta della CGIL potrebbe segnare un’altra grossa batosta per i renziani, già usciti sconfitti dalla vittoria del “No” al referendum costituzionale dello scorso 4 dicembre. La riforma del lavoro, così come la legge elettorale, erano tutti pezzi di un puzzle facenti capo ad unico progetto che era quella della riforma costituzionale, fortemente voluta anche dai mercati: non stupiscono, in questo senso, le numerose dichiarazioni dell’ex premier riguardanti la fiducia degli investitori stranieri o ancora la famosa gaffe del Ministero dello Sviluppo sullo slogan che invitava gli imprenditori ad investire in Italia perché qui vengono pagati di meno. Ed il punto è proprio questo. A che costo si deve essere competitivi? Ci si può sottrarre dal fiume in piena che è pronto a travolgere chi non si adegua?

“Le esigenze delle piccole e medie imprese italiane non sono quelle delle multinazionali ed i sindacati e Confindustria devono chiarire con chi vogliono stare”

L’iniziativa dei sindacati italiani di abrogare il Jobs Act e ripristinare il vecchio articolo 18 è senz’altro lodevole ed anzi sarebbe anche una grande opportunità per tutti quei giovani che hanno già amaramente cominciato ad assaggiare l’amaro gusto della precarietà nel lavoro e nella vita stessa. Ma potrebbe non bastare. Non basta perché, come ha scritto bene il collega Alessio Sani sulle pagine del nostro giornale, riferendosi alle politiche di opposizione dei cinque stelle: “Se si accetta la competizione globale, allora si deve fare di tutto per essere il più competitivi possibile e conseguentemente certe politiche “sociali” come il reddito di cittadinanza o la tutela dell’ambiente diventano un freno a mano tirato. Meglio votare Renzi per avere un Jobs Act atto II allora. Viceversa, se si vuole ricostruire una dimensione collettiva e politica del vivere associato, bisogna scegliersi un altro campo da gioco”. Che non è certamente l’attuale campo da gioco europeo, dove la competitività tra le imprese non si gioca più sulla qualità del prodotto o sulla bravura dell’imprenditore a rimanere “forte” sul mercato grazie alla sua originalità e alle sue iniziative di marketing, ma anzi sulla diminuzione dei diritti dei lavoratori e sulla maggiore facilità di ricorrere a licenziamenti (la famosa “flessibilità in uscita” voluta dall’ex Ministro Elsa Fornero per adeguare l’Italia alla globalizzazione dei mercati): in questa prospettiva, il raggiungimento del maggior profitto da parte delle imprese dipende da fattori che vanno oltre la buona produzione e che mirano ad intaccare i diritti sociali, producendo di più e spendendo sempre meno nella manodopera, spesso ricercata nei paesi dove costa anche meno.

E’ necessario dunque che la vera opposizione, che sia quella dei sindacati o delle forze politiche in campo, guardi anche oltre le proprie mura, oltre la semplice abrogazione del Jobs Act, e si interessi di creare un nuovo campo da gioco. Prima di tutto mettendo in discussione quello attuale.

di Roberta Barone

Intellettuale Dissidente

 

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