Il Sigillo della walâyat mohammadiana e il suo Occultamento- 2a P.
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Apr 06, 2021 05:30 Europe/Rome
  • Il Sigillo della walâyat mohammadiana e il suo Occultamento- 2a P.

Così si comprende l’energia con cui la coscienza sciita rifiuta di soccombere a un duplice e mortale errore:

o quello dell’impotenza, quello degli inadatti alle percezioni teofaniche, che affermano banalmente che l’Imam a venire non è ancora nato (ora noi sappiamo già in ragione di quale virtù pleromatica del numero dodici è necessario che il XII Imam sia contemporaneamente già e non ancora). Oppure, più grave ancora, l’obiezione dello scetticismo: l’Imam è nato, ma è morto quando era in vita suo padre. Ora, è impossibile alla coscienza sciita immaginare un assenso qualunque a qualcosa che sarebbe come l’eco o l’anticipazione del «Dio è morto». E ciò, perché il XII Imam è una figura che tipizza le stesse aspirazioni profonde di quelle cui ha corrisposto, nel cristianesimo, la cristologia di una caro spiritualis Christi. Una tale figura non appare né scompare secondo le leggi della biologia e della storicità materiale, quelle della nascita e della morte fisiche. È un essere soprannaturale per cui dipende dagli uomini che egli possa loro apparire o al contrario che si sottragga alla loro vista. La sua apparizione è il segno stesso del loro rinnovamento. Ed è tutto il senso profondo dell’idea sciita della ghaybat e della parusia. Come me lo spiegava lo shaykh al quale mi riferivo, qualche riga fa (cfr. già qui sopra libro VI, pp. 280 e 291) sono gli uomini stessi che hanno imposto all’Imam il suo occultamento; se l’Imam è nascosto, è che gli uomini si sono resi incapaci di vederlo. Non può manifestarsi, poiché non può essere riconosciuto. La parusia non è un evento che possa sopravvenire un bel giorno. È qualcosa che avviene di giorno in giorno nella coscienza degli sciiti fedeli. Perciò, appare con una chiarezza sorprendente la situazione rispettiva di coloro che le tradizioni designano come i «compagni dell’Imam nascosto» o al contrario come i suoi avversari. E in questa chiarezza, è tutto il ciclo dell’Iniziazione che si mostra, succedendo al ciclo della Profezia, e trascinando nel suo movimento le gerarchie mistiche che, pur essendo invisibili, sono presenti fra noi.

Rompere questo ciclo dell’Iniziazione, sarebbe dunque rompere l’attesa escatologica, e viceversa. Di questa rottura dicevamo più sopra che la coscienza sciita non poteva sentirne l’idea che come una insopportabile bestemmia. Ricordiamo ancora i termini dell’ultima lettera indirizzata dall’Imam a ‘Alî al-Samarrî: «Si leveranno delle persone che pretenderanno di avermi visto materialmente. Attenzione! colui che pretenderà di avermi materialmente visto prima degli eventi della fine, egli sarà un mentitore e un impostore…» Più grave ancora. Secondo un hadîth riportato da Mofaddal (Mofazzal), sul fatto che l’Imam sia occultato, tutta la gerarchia esoterica, a cominciare dal Bâb (la «soglia», il grado più prossimo all’Imam) è, anch’essa, nell’occultamento. Ci fu occasione già di dirlo qui: non solamente chiunque pretendesse di essere l’Imam in persona, ma anche chiunque pretendesse di spacciarsi per il rappresentante qualificato dell’Imam (il suo Bâb) e rivendicasse un’investitura personale in vista di una predicazione pubblica, egli romperebbe l’attesa che è essenziale al sentimento escatologico sciita, e volendo anticipare la parusia, si metterebbe eo ipso al di fuori dello sciismo. La cosa è successa, lo sappiamo; fu la tragedia del bâbismo, poi del bahâismo. Ma ciò non dà a nessuno il diritto d’imputare a una scuola la responsabilità di dottrine che ne sono la negazione e che sono sentite da quella scuola come una bestemmia. Ma ciò non è affatto dire che, per quanto a lungo possa durare il Grande Occultamento, l’Imam abbandoni per questo i suoi fedeli; capita a costoro di vederlo non solamente in sogno, abbiamo detto, ma in una maniera e in circostanze più misteriose, quelle di cui precisamente andremo a rilevare qualche caso tra molti altri. Prima, formuleremo tre premesse ermeneutiche che non fanno che ricapitolare ciò che precede.

Per comprendere i racconti che seguiranno, bisogna prima di tutto non dimenticare mai ciò che va da sé per gli adepti dell’Imam: 1) Un primo punto, è che egli vive in un luogo misterioso che non è nel luogo che controlla la geografia empirica; non c’è nessuna coordinata sulle nostre carte. Questo luogo «fuori dal luogo» nondimeno ha la sua topografia propria (infra II, 4). 2) Un secondo punto, è che la vita non è limitata alle condizioni del nostro mondo materiale visibile con le leggi biologiche che conosciamo (il ciclo del carbone). Ci sono degli eventi nella vita del XII Imam durante il periodo del suo Grande Occultamento; facevamo menzione qui sopra dei suoi figli che sono in numero di cinque,[10] governatori di misteriose città alle quali uno dei nostri racconti ci permetterà di recarci. Questi figli hanno a loro volta dei discendenti; è indicato pensare qui alla maniera in cui gli esseri si generano nel paradiso di Yima, in Êrân-Vêj[11]. 3) Un terzo punto infine, è la portata esatta delle ultime righe dell’ultima lettera dell’Imam. I teologi sciiti hanno sempre sottolineato che la rigorosa invisibilità, decisa e annunciata dall’Imam, mira a screditare e a stroncare in anticipo ogni tentativo di agitatori e d’avventurieri, pretendenti alla qualità di nâ’ib per legittimare qualche ambizione politica. Ogni rivendicazione di questo genere è eo ipso un’impostura, infatti lo sciismo non ha interesse che per l’Evento finale del nostro Aiôn, l’ultimo regno dell’Imam che opererà la restituzione e la restaurazione (apokatastasis) di tutte le cose nel loro diritto e nella loro verità, e che per questa ragione è chiamato il Qâ’im, il Resuscitatore. In compenso, i teologi sciiti sono d’accordo nell’ammettere che l’Imam non ha mai escluso di manifestarsi «in privato» per venire in aiuto a un fedele nello sconforto, materiale o morale, a un viaggiatore smarrito, per esempio, o a un credente che dispera[12].

Se la ierostoria dello sciismo è piena di tali visioni teofaniche, queste non si producono mai se non su iniziativa dell’Imam, e se l’Imam appare quasi sempre sotto forma di un giovane uomo di grandissima bellezza, quasi sempre anche, salvo eccezioni (ne vedremo più in là un caso), colui a cui fu dato il privilegio di quella visione, non prende coscienza che più tardi di colui che ha visto. Salvo eccezioni, uno stretto incognito avviluppa queste manifestazioni, lo stesso incognito che preserva la cosa religiosa da ogni socializzazione. «Molti uomini, scrive uno dei nostri teologi, ‘Alî Asghar Borûjardî[13], hanno visto la bellezza perfetta di questo Eletto (il XII Imam), ma non l’hanno riconosciuto che in seguito, dopo che egli li ebbe lasciati», comprendendo che l’azione benefica prodotta, materiale o spirituale, non aveva potuto essere opera che dell’Imam. Certi l’hanno visto al tempo del pellegrinaggio a La Mecca; altri, nella moschea di Koufa (l’antica città sciita per eccellenza); altri in qualche luogo santo sciita, ma mai si tratta d’una visione collettiva, giacché anche se gli uomini lo «vedono», sono incapaci di riconoscerlo. È ciò giustamente il Grande Occultamento. L’Imam va e viene in tutti i luoghi del mondo, senza immanere a un luogo, senza essere fissato, contenuto, in un luogo.

Lo stesso incognito avviluppa i suoi compagni, termine che comporta un senso largo e un senso più delimitato. Nel senso largo della parola, si tratta di quella gerarchia esoterica su cui ci si è interrogati qui a più riprese, e il cui numero dei membri è determinato in funzione di corrispondenze simboliche; essa permane incognito tra noi, di generazione in generazione, ogni dipartita di uno dei suoi membri essendo compensata dalla promozione di un compagno del rango gerarchico inferiore. Abbiamo constatato la presenza di questa stessa idea nel sufismo. Nel senso più delimitato, i compagni dell’Imam nascosto sono quell’élite tra le élites composta di giovani persone, di «cavalieri» (javânmardân) al suo servizio permanente nel suo seguito immediato; ne vedremo una manifestazione nel corso del racconto del «viaggio all’Isola Verde» tradotto qui sotto. Tuttavia gli uni e gli altri sono avvolti nel medesimo incognito: i primi, per le ragioni che sono state dette (libro VI, pp. 278 ss.); quanto ai secondi, che è capitato a qualche eletto di incontrare «nel paese dell’Imam nascosto», essi non possono essere riconosciuti dagli uomini più che l’Imam di cui sono i compagni. Come scrive ancora il teologo citato qui sopra, «costoro, nessuno li conosce ed essi non si fanno conoscere da nessuno. Non più di quanto sono capaci di riconoscere l’Imam, gli uomini non riconoscono mai uno solo dei suoi compagni e dei suoi paggi. Costoro non frequentano le loro dimore. Non si conosce la loro attività né le loro occupazioni. Capita che entrino in rapporto con gli umani, ma nessuno è informato del loro stato e condizione. Nei deserti, sulle isole dell’Oceano, nel cuore delle montagne come nel profondo delle valli, capita che essi piantino le loro tende. Anche molti viaggiatori, carovanieri, smarriti, hanno visto tende, dimore, castelli, incantevoli luoghi verdeggianti, spuntare in mezzo ad aridi deserti… Qualcuno vi ha avuto accesso. Essi hanno visto e compreso. Ne sono ritornati, ma mai più hanno potuto ritrovare il cammino per giungervi di nuovo, né mostrare il cammino ad altri».

Praticamente, poiché gli uni e gli altri sono avvolti nel medesimo incognito, non c’è alcun criterio definitivo che permette di differenziare le persone degli uni e degli altri, e non ci sarebbe neanche interesse a tentare di farlo. Essendo il «luogo» dell’Imam dappertutto, è giusto dire degli uni e degli altri che hanno il loro «luogo» vicino all’Imam. Gli uni e gli altri formano quell’élite, quella «cavalleria», attraverso la quale il mondo superiore comunica con il mondo inferiore, e senza la quale di conseguenza l’umanità non potrebbe sussistere nell’essere. Per loro intermediazione si opera una selezione continua di «sovrumani», dall’umanità adamitica (i trecento a immagine di Adamo) fino all’umanità serafica tipizzata nel Polo supremo (l’unico a immagine di Seraphiel). L’aspirazione di ogni fervente sciita è di figurare o di essere resuscitato tra di essi al fianco dell’Imam, al momento dell’ultima battaglia (vedere la preghiera del pellegrino tradotta qui pp. 458 ss.). La teosofia sciita ha sviluppato qui un tema che simultaneamente la caratterizza con intensità e ne svela l’affinità profonda con altre famiglie spirituali; proveremo più in là a rendere percettibili queste risonanze, sviluppando il tema della «cavalleria spirituale».

L’incognito al quale è sottomessa la cavalleria mistica che, in un senso o nell’altro, circonda l’Imam nascosto, è dunque così stretto, l’abbiamo rilevato anteriormente, come l’incognito dei cavalieri del Graal, per quanto non si sia condotti da essi fino a loro. L’opera di Sohrawardî fu qui l’occasione (libro II) di rilevare le tracce che, dall’epopea eroica all’epopea mistica dell’Iran, ci mettono sulla via di una tradizione parallela a quella delle gesta di Parsifal, così come queste ci mettono sulla via del dominio del Graal. Indicheremo più in là come la letteratura sciita che concerne l’Imam nascosto ci guidi ugualmente su una via convergente. Una medesima norma etica comanda l’incognito della cavalleria mistica che forma la gerarchia esoterica, e il ketmân imposto dagli Imam, la «disciplina dell’arcano» che osserva ogni fedele provato (momtahan), cioè iniziato al senso spirituale dell’imamismo. Questo ethos – dalle ultime parole pronunciate da ‘Alî al-Samarrî: «Ormai la faccenda non appartiene più che a Dio» – è segnato dalla desperatio fiducialis, quel pessimismo incrollabilmente fiducioso nell’aurora della parusia, con cui ciascun fedele «che ha fatto le sue prove», risponde e corrisponde alla vigilanza degli Invisibili. Perché così si avvicina l’aurora, ed è questo «essere un compagno dell’Imam». Si comprende altrettanto meglio perché chiunque rivendicasse pubblicamente la qualità di «compagno dell’Imam» e pretendesse parlare in nome dell’Imam, commetterebbe un tradimento e non potrebbe che essere un impostore.

Non cercheremo qui di penetrare quest’incognito, ma proporremo la traduzione di alcuni racconti di testimoni che «sono stati condotti e hanno visto», e se è vero che essi non possono farci ritrovare il cammino che seguirono, almeno possono comunicarci cosa hanno visto uscendo dal luogo esteriore, per penetrare «tra i tempi», in quello che noi non possiamo che denominare con Sohrawardî, attraverso il termine che coniò lui stesso in persiano: Nâ-kojâ-âbâd, – il «paese del Nessun-dove», poiché esso è il luogo interiore, davvero un paese (âbâd), ma di cui non si può dire «dove» sia, perché non ci si può orientare verso di esso prendendo come punti di riferimento i punti cardinali dello spazio sensibile. È il paese delle «visioni teofaniche»; appartiene a quello che Sohrawardî designava ancora come l’«ottavo clima». L’universo del Malakût parallelo all’universo sensibile, ha il suo spazio proprio e la sua topologia propria; quanto al rapporto fra lo spazio del Malakût e quello del nostro mondo, non lo si può presentire che comprendendo con i nostri filosofi come la sostanza spirituale «avvolga» la sostanza materiale, – come l’anima sia il «luogo spirituale» del corpo.

Tra i molteplici racconti concernenti le apparizioni dell’Imam al «tempo del Grande Occultamento», i quattro testi di cui proponiamo qui sotto la traduzione, appartengono a tipi differenti. Due di essi (il primo, racconto della fondazione di Jam-Karân, e il quarto, incontro nel deserto) mettono il fedele in presenza dell’apparizione dell’Imam in persona. I due altri (il secondo, racconto del viaggio all’Isola Verde, e il terzo, il viaggio alle cinque isole) conducono il fedele in presenza dei compagni o dei figli dell’Imam. Ogni volta, certo, l’incontro risulta da una decisione segreta dell’Imam; all’uomo rendersene adatto, ma non sta all’uomo decidere che vuole incontrarlo e ancor meno riuscirci (un aneddoto ce lo ricorderà qui sotto). Inoltre, può succedere che la presenza dell’Imam faccia irruzione nel luogo dove si trova il fedele o il pellegrino, e direttamente da lì lo trasferisce al luogo della sua presenza (quarto racconto). E può succedere che l’episodio visionario cominci sia con la manifestazione di persone «appartenenti al mondo dell’Imam» e che progressivamente fanno penetrare il pellegrino in quel mondo (primo e secondo racconto), sia con un prologo iniziatico, una navigazione per esempio, che all’insaputa degli interessati, li porta in un mondo sconosciuto (terzo racconto).

Tutti i racconti hanno questo tratto comune e caratteristico che il passaggio dalla topografia del mondo sensibile a quella del mondo sconosciuto, si compie senza che i soggetti abbiano coscienza del momento preciso in cui si opera la rottura. Non se ne accorgono se non quando sono già «altrove». Altro dettaglio caratteristico: l’irruzione del mondo dell’Imam nel nostro mondo può prolungarsi attraverso qualche traccia materiale (generalmente un edificio costruito su suo ordine); o, fatto più sconcertante, il pellegrino può riportare dal suo incontro un oggetto testimone (un libro, una borsa, per esempio). Succede così che la portata dell’evento faccia del racconto un veritiero racconto d’iniziazione, cioè d’iniziazione alla dottrina sciita, al segreto dell’Imâmat (secondo e terzo racconto). Ma c’è però qualcosa, il racconto del viaggio all’Isola Verde ce ne avverte, che noi non sapremo mai, perché la disciplina dell’arcano vieta – o vietava allora – di metterlo per iscritto. I racconti ci suggeriscono l’onnipresenza del luogo spirituale che è fuori dal luogo esteriore, cioè rispetto a questo luogo esteriore circoscritto e circoscrivente, ciò che possiamo chiamare l’ubiquità di Nâ–kojâ-âbâd (rispetto al luogo del mondo sensibile, il luogo spirituale non è da nessuna parte, poiché è peraltro dappertutto, cfr. infra II, 4).

Infine questi racconti e il grande numero di racconti simili sono da leggere e da comprendere come continuanti l’agiografia del XII Imam. Dicendo che il XII Imam è da dieci secoli la storia della coscienza sciita, non intendiamo affatto parlare per metafora né per mezzo di qualche sotterfugio nominalista, ma nel senso del tutto «realista» del mundus imaginalis. Il luogo di quel mondo dove appare il luogo dell’Imam è il mazhar, cioè il teatro e specchio del luogo dell’Imam (non è dunque in quello specchio che bisogna, in seguito, cercare l’Imam). È ciò che spiega mirabilmente Sohrawardî (in perfetta concordanza con ciò che spiegherà più tardi Swedenborg, riguardo al mondo delle visioni). In catottrica mistica, l’organo di percezione delle apparizioni negli specchi è la potenza immaginativa, essa stessa un katoptron, specchio, e specchio della coscienza. Da qui, dicendo che queste visioni, queste epifanie, sono l’agiografia, la storia del XII Imam, si dà a intendere che quella storia, compiendosi nel mondo parallelo, è una antistoria rispetto alla storia nel senso ordinario della parola; essa non rientra in questa storia, non più di quanto l’immagine sia immanente allo specchio, nel modo in cui il colore nero, per esempio, è immanente al legno nero. Il luogo dove essa trascorre è il luogo spirituale, così come il suo tempo è «tra i tempi». Queste epifanie liberano l’uomo dalle leggi della storia e dello spazio dove si compie la storia nel senso corrente. Esse non sono sottomesse alle leggi della causalità storica; non si può «spiegare» la storia segreta del XII Imam col meccanismo di quelle leggi. Il principio degli eventi epifanici è un principio di sradicamento da quella causalità – principio che va in direzione opposta o controcorrente rispetto ai nostri teologi e filosofi religiosi che «cercano Dio nella storia». La «storia» del XII Imam è uno sradicamento dalla Storia. Mancando di comprenderlo, non si potrà penetrare nel mondo dell’Imam, e si ricorrerà a spiegazioni «scientifiche» il cui risultato più chiaro sarà forse abolire la cosa che esse cercano di spiegare.

NOTE

[1] Su quest’altra personalità preponderante della famiglia Nawbakhtî, cfr. ‘Abbâs Eqbâl, op. cit., pp. 212 ss.

[2] Vedere la lista dei loro nomi con indicazione delle fonti in Emâd-Zâdeh, Zendegânî, pp. 198 ss.

[3] Cfr. Majlisî, Haqq al-Yaqîn, p. 364.

[4] Informazione di Ibn Bâbûyeh secondo il Kitâb al-ghayba di Tûsî; Majlisî, Bihâr, vol. XIII, trad. persiana, p. 258; ‘Emâd-Zâdeh, Zendegânî, p. 201 (testo dell’ultima lettera dell’Imam con traduzione persiana).

[5] L’Imam allude qui agli episodi che circondano la «sortita» di Sofyânî e di Dajjâl (l’«Anticristo»); cfr. Safînat Bihâr al-Anwâr, I, 634; Golpâyagânî, op. cit., p. 481.

[6] Cfr. R. F. Hobson, The King who will return (Guild Lecture, 130), Londra 1965.

[7] Nonostante quanto detto dall’autore, pare che l’esistenza dell’Isola Verde debba essere messa seriamente in discussione. Allamah al-Majlisi nell’opera “Bihar al-Anwar” parla di un piatto di vetro presente nel mausoleo dell’Imam Ali (as) a Najaf ove vi era un’incisione in cui si alludeva all’esistenza di questa misteriosa isola. Il ritrovamento di questo piatto ha eventualmente portato, in alcune zone, alla formazione e diffusione di questa credenza popolare. E’ chiaro, comunque, che un’incisione ritrovata su un piatto basata sulle parole di un sapiente, per quanto celebre possa essere, non può essere utilizzata come evidenza (n.d.c.).

[8] Questa dichiarazione non è sostenuta da alcun hadith attendibile e autentico (n.d.c.).

[9] La tesi sostenuta dalla scuola shaykhita è stata rigettata da tutti i più grandi ulama del passato e del presente. Infatti l’Imam Occulto è ritenuto essere vivo in carne ed ossa nella nostra stessa condizione presente. Ciò non gli impedisce di essere e agire anche nella sfera spirituale la quale, però, a detta degli stessi ulama, non avrebbe niente a che fare con il mondo sopra-sensibile citato dagli shaykhiti (n.d.c.).

[10] Come detto in precedenza, la teoria di Corbin in cui si dichiara che l’Imam abbia avuto cinque figli governatori di misteriose città, non è stata riportata da alcun hadith attendibile (n.d.c.).

[11] Sul Var di Yima, cfr. il nostro libro Terra celeste e corpo spirituale, p. 47.

[12] ‘Alî Asghar Borûjardî, Nûr al-Anwâr (in persiano), Teheran 1347 / 1928, p. 177, così come Majlisî, Bihâr, vol. XIII, p. 143.

[13] Per ciò che segue, cfr. ‘A. A. Borûjardî, op. cit., p. 166.

* Tratto dal IV volume dell’opera dello studioso francese intitolata “En Islam iranien”. La traduzione in italiano è stata gentilmente messa a disposizione dell’Associazione Islamica Imam Mahdi (AJ) dal Dott. Fabio Tiddia, che a tale argomento ha dedicato la propria tesi di laurea.

Fonte: https://islamshia.org/il-sigillo-della-wilayat-mohammadiana-e-il-suo-occultamento-h-corbin/

 

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