Aabia Saudita, nuova fase nella politica estera
RIYADH - Riportare la stabilità nella regione dell'Asia Occidentale e del Golfo Persico, ponendo fine alla guerra in Yemen, bilanciare l’influenza delle potenze di Stati Uniti e Cina ...
ecc sarebbero state tra le ragioni che hanno spinto l’erede dell’Arabia Saudita, Mohammed bin Salman (Mbs), a lavorare intensamente per accelerare il raggiungimento dell’accordo con l’Iran firmato lo scorso 10 marzo a Pechino.
Il processo di distensione con l’Iran, favorito dalla Cina, inserisce il Regno saudita, storico alleato degli Usa nel pieno delle dinamiche multipolari e dell’integrazione euro-asiatica che hanno il loro motore a Mosca e a Pechino. L’impulso decisivo alla revisione delle modalità con cui proiettare i propri interessi in ambito regionale e non solo è arrivato in buona parte dal sanguinosa aggressione contro il martoriato Yemen, con la monarchia wahhabita che si ritrova impantanata da quasi un decennio senza aver raggiunto suoi obbietivi, far cadere l’Ansarallah e riportare al potere il suo alleato l’ex presidente, Abd Rabbuh Mansour Hadi. Il fallimento della guerra, appoggiata in pieno da Washington, ha così spinto le autorità saudite ad allargare gli orizzonti geopolitici tradizionali, col risultato di consolidare la partnership con Russia e Cina.
L’importanza dell’Arabia Saudita negli equilibri dell’Asia occidentale è tale che il riassestamento delle relazioni con i vicini e con gli stessi Stati Uniti può avere effetti decisivi virtualmente su ogni singola crisi regionale in atto. Non a caso, infatti, il nuovo paradigma strategico mediorientale è stato catapultato al centro di un acceso dibattito internazionale proprio in seguito alla stretta di mano avvenuta a Pechino il 6 marzo scorso tra i rappresentanti di Teheran e Riyadh.
Un’analisi del comportamento saudita pubblicata questa settimana dalla testata on-line libanese The Cradle ha sottolineato i cambiamenti epocali insiti nelle manovre strategiche del regno. “Di particolare rilievo”, si legge nell’articolo, è il fatto che l’erede al trono saudita bin Salman “non si è affidato alla diplomazia per ristabilire la tradizionale centralità americana nelle politiche regionali e della sicurezza del regno, ma ha dato impulso alla cooperazione con Pechino e Mosca, snobbando Washington nel contempo”. Se i cambiamenti a Riyadh sono nell’aria da tempo, gli ultimi mesi hanno registrato una sensibile accelerazione, testimoniata da una serie di decisioni contrarie agli interessi americani, talvolta prese addirittura in netto contrasto con le indicazioni esplicite dell’amministrazione Biden.
Il coordinamento con la Russia nella stabilizzazione delle quotazioni del greggio nel quadro della formula “OPEC+” ne è un chiaro esempio. Lo scorso ottobre, i sauditi promossero un taglio alla produzione di petrolio nonostante le presunte promesse fatte qualche mese prima a un presidente americano disperatamente alla ricerca di soluzioni per contenere il prezzo dei carburanti. Una revisione al ribasso dell’attività estrattiva che è stata accentuata proprio nel fine settimana, con l’annuncio a sorpresa di un’ulteriore taglio di oltre un milione di barili al giorno concordato tra OPEC.
A dicembre, poi, il presidente cinese Xi Jinping era stato accolto a Riyadh con un cerimoniale ben diverso da quello riservato a luglio a Joe Biden. La visita di Xi era avvenuta nell’ambito del primo vertice tra la Cina e il Consiglio per la Cooperazione del Golfo Persico, durante il quale era stato in qualche modo ratificato il ruolo di Pechino come partner di spicco sia dell’Arabia Saudita sia delle altre monarchie della regione.
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