USA, i complici dell’orrore nello Yemen - 1
WASHINGTON - La sanguinosa guerra scatenata contro lo Yemen dall’Arabia Saudita e dai suoi alleati del Golfo Persico ha provocato da tempo la più grave
crisi umanitaria del pianeta ed è segnata da ripetuti episodi che le Nazioni Unite e svariate organizzazioni internazionali indipendenti hanno indiscutibilmente classificato come crimini di guerra. L’inerzia e il sostanziale silenzio su questa realtà da parte degli auto-proclamati difensori della democrazia e dei diritti umani in Occidente contrastano drammaticamente con le denunce, del tutto fuori contesto, della brutalità russa in Ucraina.
Dietro al disinteresse per la sorte della popolazione yemenita non c’è soltanto la consueta pratica dei due pesi e delle due misure, secondo la quale amici e compari d’affari di Washington e dell’Europa hanno facoltà di operare secondo standard diversi da quelli applicati a paesi o regimi meno graditi. Nel teatro di guerra del più povero dei paesi arabi c’è in gioco anche la responsabilità diretta degli stessi Stati Uniti nei crimini commessi a partire dal 2015. A confermarlo nuovamente è stata un’indagine pubblicata nel fine settimana dal Washington Post e realizzata in collaborazione con un istituto affiliato alla Columbia University di New York (“Security Force Monitor”).
Nonostante Biden avesse preso qualche timida iniziativa per sganciare l’amministrazione democratica dall’aggressione saudita e, ufficialmente, per convincere il regime di Riyadh a cercare una soluzione negoziata con i “ribelli” Houthis yemeniti, nel concreto le differenze sul campo non si sono praticamente viste. È vero che nello Yemen è in vigore da qualche settimana una tregua, prolungata di recente, che sta risparmiando almeno temporaneamente la popolazione dalle conseguenze dei raid aerei. Nei mesi precedenti, però, si era assistito al periodo più lungo di bombardamenti ad alta intensità degli ultimi quattro anni.
Gli stessi reporter del Washington Post accostano le durissime condanne e la “indignazione” generale suscitate dalle notizie dei bombardamenti di edifici civili da parte della Russia in Ucraina, peraltro dimostratisi quasi sempre dei “fake”, alla reazione diametralmente opposta in presenza di “migliaia di incursioni contro i civili nello Yemen”. Nel 2021, Biden aveva comunque annunciato la fine dell’assistenza americana per le “operazioni offensive” della coalizione guidata dai sauditi. In questo quadro era stato deciso lo stop alla vendita di missili e munizioni impiegate nel conflitto.
Quest’ultima è stata a tutti gli effetti una mossa di facciata, visto che l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi hanno potuto contare, da un lato, sulla riserva di materiale bellico già acquisita e, dall’altro, sulla possibilità di continuare a rifornirsi, anche dagli USA, tramite i canali “commerciali”. Il bando imposto dalla Casa Bianca riguarda infatti solo quelle forniture, oppure programmi di addestramento, finanziate direttamente dal Pentagono o dal dipartimento di Stato, mentre non si applica appunto alla vendita di armi fatta direttamente dalle compagnie produttrici a governi stranieri. Questo limite è fissato dalla stessa “legge Leahy” che vieta teoricamente al governo americano di trasferire armi o assistenza di altro genere a forze di sicurezza di altri paesi implicate in gravi violazioni dei diritti umani.
Anche prendendo per buono lo stop alla vendita di armi, l’Arabia Saudita e gli Emirati, spiega il Post, hanno potuto proseguire la loro campagna di sangue nello Yemen grazie a contratti mai sospesi o cancellati per l’addestramento dei piloti degli aerei da combattimento, così come per gli interventi di manutenzione e la fornitura di parti di ricambio. Anche i jet F-15S e F-15SA, indicati da Riyadh come decisivi per la campagna di bombardamenti sullo Yemen, sono il frutto di contratti multimiliardari sottoscritti con gli Stati Uniti. L’analisi del Washington e Post e della Columbia University ha inoltre per la prima volta collegato alcuni squadroni sauditi, responsabili di operazioni conclusesi con stragi di civili, a esercitazioni congiunte con le forze americane, di cui almeno una effettuata in territorio USA. Questi fattori sono assolutamente cruciali per sostenere lo sforzo bellico saudita e, almeno a livello teorico, una decisione ferma da parte di Washington avrebbe inciso in modo pesante sulle attività militari nello Yemen.
Ci sono altri elementi che smentiscono le pretese del governo di Washington di non essere a conoscenza dell’utilizzo da parte saudita delle armi fornite o dei mezzi in grado di volare grazie all’assistenza americana. Mentre le organizzazioni a difesa dei diritti umani devono condurre complicate indagini sul campo o mettere assieme pezzi di informazione di dominio pubblico per avere un quadro approssimativo degli episodi in odore di crimini di guerra, il governo e i militari USA possono contare su fonti molto più attendibili che tengono però segrete. Come già confermato in un’udienza al Senato di Washington nel 2019 dall’allora comandante del Comando Centrale, generale Joseph Votel, gli Stati Uniti hanno accesso a un “database dettagliato” dei bombardamenti della coalizione a guida saudita nello Yemen. Grazie a questo strumento, il Pentagono può così sapere quali aerei hanno partecipato a missioni in cui sono stati commessi crimini di guerra e se perciò vi è stata collaborazione americana.
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