Scopri l’Iran (13); Isfahan
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Parstoday- Isfahan, oltre le cupole e le piazze maestose, è una terra di lingue e dialetti; dal dolce accento isfahanese ai racconti armeni di Jolfa e alle melodie georgiane di Fereydunshahr. In questa puntata viaggiamo nel cuore di questa varietà sonora per conoscere la cultura e l’identità di Isfahan da una nuova prospettiva.
(last modified 2025-09-22T14:10:27+00:00 )
Set 22, 2025 16:09 Europe/Rome
  • Scopri l’Iran (13); Isfahan

Parstoday- Isfahan, oltre le cupole e le piazze maestose, è una terra di lingue e dialetti; dal dolce accento isfahanese ai racconti armeni di Jolfa e alle melodie georgiane di Fereydunshahr. In questa puntata viaggiamo nel cuore di questa varietà sonora per conoscere la cultura e l’identità di Isfahan da una nuova prospettiva.

Isfahan non si esaurisce nelle cupole e nelle maioliche; qui si trova un vero e proprio “paradiso dei dialetti antichi”. Dal persiano isfahanese con le sue raffinate sfumature fonetiche e lessicali ai dialetti di Khansar, Golpayegan, Meymeh, Natanz, Ardestan e Naein; dalle voci armene di Jolfa ai racconti georgiani di Fereydunshahr fino alle storie antiche del quartiere Joubarah. Ogni parola è traccia di un mondo vissuto, ogni melodia di frase è frammento della memoria collettiva di questa terra.

Isfahan, il brillante gioiello dell’Iran, è chiamata a ragione “la metà del mondo”; passeggiare tra i suoi vicoli storici e ammirare le sue architetture uniche è un’esperienza che va oltre un semplice viaggio, è una finestra spalancata su un passato grandioso e vitale. Ma una delle attrazioni meno note di Isfahan e dei suoi dintorni è proprio l’incontro con i dialetti locali; una varietà sonora che completa lo spettacolo dei monumenti. I dialetti non sono solo un modo di parlare; sono frammenti di cultura, specchi della vita quotidiana, della storia, delle credenze e dei riti.

I dialetti iraniani sono un tesoro di antichi vocaboli e radici linguistiche, in cui restano vive tutte le stratificazioni della lingua, dalla grammatica e fonetica fino al ritmo della frase.

Il dialetto isfahanese è una variante del persiano standard, che presenta differenze fonetiche, lessicali e a volte strutturali. Queste si colgono tanto nei suoni quanto nell’intonazione. La più nota è forse quella “se” finale equivalente a “ast”: khubes (“è buono”), qashanges (“è bello”), dorostes (“è giusto”). Nei suoni troviamo spostamenti sottili: allungamenti vocalici, la “q” che si addolcisce nel parlato quotidiano, e un ritmo che rende la frase melodiosa. Anche nel lessico emergono parole caratteristiche, come yevar (“di colpo”), aqa dale (“tesoro mio”), o vaset (“per te”) pronunciate con una lentezza particolare che restituisce il colore della città.

Secondo i linguisti, Isfahan è il vero “paradiso dei dialetti antichi” dell’Iran. Accanto al persiano isfahanese, sono diffuse lingue e parlate come l’armeno, il georgiano, il turco e numerosi dialetti iraniani centrali e ad oggi alcuni di essi sono stati inseriti nella lista del patrimonio culturale immateriale nazionale. Uno sguardo sul territorio mostra la varietà dilettale in Khansar e i suoi villaggi, Golpayegan e Vaneshan, Meymeh e località come Veyu, Ozan e Vazvan hanno ciascuno un proprio colore linguistico; a Kashan si distinguono dialetti puri come l’Abuzidabadi; e nella parte orientale della provincia, da Natanz ad Ardestan, fino a Naein, Jarghuyeh, Gaz, Barkhar e Komeshcheh, risuonano parlate locali ben distinte.

A sud della città, il quartiere di Jolfa vive ancora con la voce dell’armeno; una lingua che da secoli accompagna la musica delle chiese, i commerci dei mercanti e l’arte della stampa. Accanto agli armeni, anche ebrei e zoroastriani parlano nei diversi centri della provincia con i toni e stili propri. Queste differenze non sono giochi di parole, ma frutti di secolari contatti culturali, di condizioni economiche e di percorsi migratori.

La cultura indigena di Isfahan affonda le sue radici nella storia e, come ogni grande città del mondo, è stata influenzata dalla geografia e dalle vicende del passato. Questo popolo ha subito invasioni, come quella di Mahmud l’Afghano o di Tamerlang, ma ha sempre trasformato la minaccia in opportunità grazie alle proprie risorse culturali. Pazienza e ponderatezza nel parlare, prudenza negli affari e abilità nella convivenza interculturale sono frutti di questa storia travagliata.

La cultura e le tradizioni di Isfahan vanno oltre la lista dei luoghi da visitare; sono un’esperienza viva, che scorre nei comportamenti e nelle relazioni quotidiane. L’amore per l’arte e l’ospitalità si rivelano già al primo incontro: un benvenuto sentito e semplice, conversazioni calorose e l’impegno del padrone di casa per la comodità dell’ospite. Le regole della socialità si fondano sul rispetto reciproco e sull’ordine: dal saluto iniziale all’attenzione ai turni, dalla pulizia degli spazi al rispetto dei diritti altrui.

La gente di questa terra è legata alle proprie tradizioni, che celebra con dignità nelle ricorrenze nazionali e religiose; rituali che non sono spettacolo, ma legame tra generazioni. Nei sondaggi tra i turisti, due qualità emergono di continuo: ospitalità e cordialità. È proprio questa gentilezza di parola e la lealtà negli scambi a creare fiducia e senso di sicurezza. Le notti di Isfahan rivelano un altro volto della sua cultura: viali pedonali pieni di vita, piazze animate, gruppi di amici che si scaldano nella conversazione.

Ordine e precisione a Isfahan non sono solo abitudini, ma il ritmo stesso che regola la vita sociale. Dalle feste familiari ai rituali religiosi e civili, tutto procede con una chiara organizzazione, tempi precisi e ruoli ben definiti; come se ogni cerimonia fosse una scena già messa in scena. Anche nelle interazioni quotidiane si nota il rispetto delle gerarchie: precedenza agli anziani, il posto d’onore agli ospiti, e la sottile arte del ta’arof (complimenti), che porta insieme rispetto e intimità.

Nell’indole degli isfahanesi l’etica si intreccia con la ponderatezza; come afferma un antropologo: per loro “il mondo è giusto solo se viene misurato correttamente”. Tre qualità emergono da questa caratteristica: ordine, disciplina e buone maniere. Disordine e trascuratezza non trovano posto; pulizia e regole si vedono in casa, nei vicoli e nei bazar, e l’ospite – secondo l’antica tradizione – viene trattato come un “re”.

Questa misura trova perfezione anche nell’arte: una creatività che nasce entro logiche e geometrie, e che dà vita a forme nuove, dalla maiolica all’architettura, dalla miniatura all’artigianato. Questo rigore, a volte percepito come severo, cela una tenacia che ha donato all’Iran grandi nomi nelle scienze e nelle arti. E poi c’è l’umorismo; sottile, velato, mai pungente né urlato, che porta solo un sorriso e stimola il pensiero.

Per comprendere la diversità linguistica di Isfahan bisogna guardare alla sua composizione etnica. I persiani sono il gruppo più numeroso e abitano gran parte delle pianure e delle città centrali e occidentali. Accanto a loro, tribù e comunità antiche contribuiscono ciascuna con lingua e usi al mosaico identitario della provincia.

I qashqai sono presenti in modo sparso a Semirom, Shahreza e Dehaghan, trascorrendo parte dell’anno in migrazione; l’estate sui monti di Semirom, l’inverno in Fars. I bakhtiari, che costituiscono circa un decimo della popolazione della regione, vivono da Fereydunshahr e Chadegan fino a Buin Miandasht e Semirom. Talvolta migrati dalle regioni di Chaharmahal e Khuzestan verso le periferie industriali di Isfahan, oggi la parlata lori bakhtiari convive con il persiano isfahanese in una ricca sinfonia.

Gli armeni sono un’altra comunità presente fin dall’epoca safavide, con un ruolo importante nell’economia e nell’arte di Isfahan. Il quartiere di Jolfa con la cattedrale di Vank resta la perla della cultura armena; un luogo dove scrittura, libri e musica ecclesiastica continuano a tramandarsi.

Anche i curdi si stabilirono a Isfahan, Golpayegan, Kashan e Naein durante i trasferimenti del primo periodo Pahlavi; oggi parlano persiano mescolato a tratti di curdo, mantenendo vive le proprie tradizioni. I georgiani, come gli armeni, furono trasferiti dal Caucaso da Shah Abbas, prima a Najafabad e poi a Fereydan e Fereydunshahr. Qui l’insegnamento del georgiano testimonia ancora oggi la resistenza culturale.

Accanto a queste comunità, gli ebrei di Isfahan vivono da secoli nel quartiere di Joubarah, vicino alla moschea del Venerdì. Fonti antiche menzionano i nomi “Yahudiyeh” e “Darol Yahud”. Più di venti sinagoghe esistevano a Joubarah, Dardasht e Golbahar, alcune delle quali ancora attive. La musica e la poesia hanno sempre prosperato in questa comunità, con strumenti come tar, kamancheh e ney a scandire le epoche. La lingua “Jeidi”, miscela di persiano, dialetto isfahanese ed ebraico, vive ancora nelle storie e nelle canzoni di questa comunità.

E ora proseguiamo verso Kashan, una città che sembra uscita dalle pagine dorate della storia. Kashan non è solo case storiche e mercati animati; custodisce riti che profumano di rose e acqua di rose, scandendo il ritmo della vita con tradizioni antiche. Tra le sue usanze, due spiccano al punto che il nome della città è legato a esse: la “distillazione dell’acqua di rose” (golab-giri) e il “lavaggio dei tappeti” (qali-shuyan). La prima, ogni primavera, profuma monti e pianure con la rosa damascena; la seconda, ogni autunno, rinnova la memoria rituale a Mashhade Ardehal. Oggi ci fermiamo soprattutto tra i distillatori di rose.

La distillazione dell’acqua di rose comincia di solito all’inizio di maggio e continua fino a fine giugno. Qamsar, città dei laboratori di distillazione, grazie al clima e al terreno adatti, è il paradiso delle rose damascene. In questa stagione, al mattino presto, prima che il sole diventi cocente, i raccoglitori vanno nei giardini.

La tradizione vuole che i fiori siano portati con canti e gioia alle botteghe; talvolta accompagnati da preghiere, nella convinzione che la purezza dell’intento dia maggiore fragranza al prodotto. Nei laboratori, file di calderoni di rame sono in attesa. Rose e acqua ribollono insieme; il vapore profumato passa nei tubi, si raccoglie nell’acqua fredda dei condensatori e torna a essere liquido limpido: Golab o l’acqua di rose. Questo processo apparentemente semplice è in realtà frutto di secoli di esperienza.

Si dice che la coltivazione della rosa risalga in Iran all’epoca achemenide e che in epoca safavide l’acqua di rose di Kashan divenne così celebre da esportarsi fino all’Impero ottomano, in Siria e perfino nei Balcani. Ancora oggi Qamsar e Niasar restano i baluardi profumati di questo patrimonio; luoghi in cui ogni primavera la città si risveglia tra rose, petali e canti.

La distillazione dell’acqua di rose non è solo un’industria, ma un linguaggio. Il linguaggio della collaborazione nel lavoro, della divisione dei compiti, della partecipazione delle famiglie, del legame tra le generazioni. I bambini, accanto agli adulti, imparano prima il profumo dei fiori e poi l’arte della distillazione. Se chiedi loro perché tanta gioia, forse risponderanno: “Perché la rosa damascena dà pace al cuore”. E questa serenità è più di un profumo; è l’eredità di una cultura.