Lug 31, 2018 13:14 CET
  • Iraniani Famosi (49): Molanà Jalaleddin Balkhì, meglio noto come Rumì (p.6)

In questo programma proseguiamo narrandovi le vicende della vita di uno dei genii della poesia di tutti i tempi, un personaggio del 13esimo secolo che negli ultimi anni alcune nazioni hanno cercato di rubare all’Iran. Stiamo parlando del celeberrimo Molanà Jalaleddin Balkhì meglio noto come Rumì.

Chi ci ha seguito le settimane scorse ricorderà che dopo la seconda fuga di Shamsuddin da Quniè, Molavì andò a Damasco di persona per cercarlo. Dopo lunghe ricerche però, Molavì capì che cercare era inutile. L'anziano amico non sarebbe più tornato ma Molavì non lo cercò perchè ormai sapeva che era come se Shams fosse vivo in lui. Tanto era forte ed intenso il suo ricordo che era come se fosse sempre con lui. Ma ora il seguito!

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Shams non sarebbe più tornato e nessuno avrebbe più avuto notizie di lui; ma la sua presenza, anche se fulminea, nella vita di Molavì cambiò radicalmente il nostro poeta. Il grande muftì, il superbo leader religioso, colui che emetteva le Fatwa, il rettore della Madrasa della città, una sorta di università, non poteva più vivere come prima. La fama, il potere, persino la scenza; per lui non c'era più nulla di attraente in ciò che era mondano. I suoi poteri li affidò al figlio Alaeddin che aveva svolto più o meno i suoi stessi studi; Molavì passava i suoi giorni, in casa, in compagnìa dell'altro figlio Sultan Walad, e dei suoi due fedeli allievi Salahuddin Zarkub e Hesamuddin Chalabì. In questo periodo, Salahuddin, un'orefice ignorante, ma un grande gnostico, era l'amico più vicino di Molavì che colmava il vuoto di Shams. Come Shaikh, o guida della loro ascesa verso il Signore, o guida per il loro avvicinamento a Dio, Molana stesso e i suoi più vicini amici scelsero l'anziano Salahuddin che lì guidò fino al 657 del calendario arabo, anno in cui perse la vita. La vita di Molavì proseguì e per poco tempo riassunse la guida spirituale dei suoi vicini seguaci; dopo Hesamuddin Chalabì, giovane, ma molto devoto, assunse la responsabilità di guida.

Molavì aveva ormai più di 50 anni ed era alla ricerca di maggiore tranquillità ed una vita meno impegnativa. Era invecchiato velocemente e pareva più anziano di quanto fosse veramente.

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Proprio in questi anni, Hesamuddin che era il personaggio più vicino a Molavì e scrittore delle sue poesìe, chiese a lui di realizzare un Mathnavì, un poema come avevano fatto grandi gnostici del passato come Sanaì ed Attar e di esprimere con i versi, le esperienze del cammino verso Dio.

Ed ecco che Molavì scrisse i famosissimi versi del suo Nei Namè, la lettera della canna.

C'è da spiegare che a quel tempo, era una tradizione iniziare ogni libro ed ogni testo con il nome di Dio, con lodi al Signore ed al profeta dell'Islam. Il bello è che Molavì non cita direttamente il Signore, ma usando un simbolo, la canna, esprime tutto il suo amore per Dio ed il sentimento che lo trascina verso Allah. Per lui, gli uomini sono come una canna trasformata in faluto; sono stati tagliati dal canneto, dal posto a cui appartengono; per questo divengono flauti ed il loro suono ed il loro grido; il loro lamento che dice: riportateci nel canneto. E cosa rappresenta il canneto? Dio.

Ma ora ascoltiamo il Nei Namè, il Canto della Canna.

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Ascolta la canna, com'esso narra la sua storia,

com'esso triste lamenta la separazione:

Da quando mi strapparono dal canneto,

ha fatto piangere uomini e donne il mio dolce suono!

Un cuore voglio, un cuore dilaniato dal distacco dall'Amico,

che possa spiegargli la passione del desiderio d'Amore;

Perché chiunque rimanga lungi dall'Origine sua,

sempre ricerca il tempo in cui vi era unito.

Io in ogni assemblea ho pianto le mie note gementi

compagno sempre degli infelici e dei felici.

E tutti si illusero, ahimè, d'essermi amici,

e nessuno cercò nel mio cuore il segreto più profondo.

Eppure il segreto mio non è lontano, no, dal mio gemito:

sono gli occhi e gli orecchi che quella Luce non hanno!

Non è velato il corpo dall'anima, non è velata l'anima dal corpo:

pure l'anima a nessuno è permesso di vederla.

Fuoco è questo grido della canna, non vento;

e chi non l'ha, questo fuoco, ben merita di dissolversi nel nulla!

E'il fuoco d'Amore ch'è caduto nella canna,

è il fervore d'Amore che ha invaso il vino.

La canna è compagna fedele di chi fu strappata a un Amico;

ancora ci straziano il cuore le sue melodie.

Chi vide mai come la canna contravveleno e veleno?

Chi come la canna mai vide un confidente e un'amante?

La canna ci narra d'un sentiero tutto rosso di sangue,

ci racconta le storie dell'amor di Majnun:

Solo a chi è fuori dai sensi questo senso ascoso è confidato

la lingua non ha altri clienti che l'orecchio.

Nel dolore, importuni ci furono i giorni,

i giorni presero per mano tormenti di fuoco;

Se i nostri giorni passarono, dì: Non li temo!

Ma Tu, Tu non passare via da Noi, Tu che sei di tutti il più puro!

Ma lo stato di chi è maturo nessun acerbo comprende;

breve sia dunque il mio dire. Addio!

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I versi di Molavì, con quel loro folgorante amore per Dio, crearono un putiferio a Quniè; Hesamuddin e gli altri allievi erano allettati da quel linguaggio sublime e perciò chiesero a Molavì di continuare a scrivere. Gli allievi dissero che ogni settimana avrebbero passato delle ore con Molavì ed in quegli orari avrebbero ascoltato il seguito dell'opera che poi sarebbe divenuta il Mathnavì. Hesamuddin insistette a lungo e con difficoltà riuscì a convincere Molavì. Il Mathnavì venne scritto così grazie ai suoi sforzi nel corso di 14 anni, fino agli ultimi giorni di vita di Molavì.

In quei 14 anni, Molavì aveva affidato tutto a Hesamuddin e si occupava solo delle sue preghiere e delle orazioni che formavano il Mathnavì. Alcune volte concedeva agli allievi anche degli orari in cui rispondeva alle loro domande e parlava di temi inerenti alla teologìa. Anche questi suoi preziosi discorsi vennero scritti attentamente e raccolti nell'opera "Fihe-ma-fih" che vuol dire " In essa c'è ciò che c'è ".

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Questi anni, vengono ricordati dagli studiosi di Molavì come gli anni della pace di Molavì, anni in cui egli completò molto probabilmente il suo cammino verso Dio.

Egli ormai si considerava nulla, solo una canna, come ricordava la poesìa, che suonava perchè in essa soffiava qualcuno e quel qualcuno non era che Dio ed il suo amore.

Così completò anche i suoi insegnamenti ai suoi allievi e a loro fece imparare che per arrivare fino a Dio, bisognava dimenticare se stessi. Quello che è interessante è l'ordine incredibile con cui Molavì riusciva ad esprimersi. Lui parlava ed altri scrivevano, ma osservando il Mathnavì è come se qualcuno l'avesse scritto, come se qualcuno l'avesse corretto mentre così non è stato. È interessante che alcune volte quando Molavì parlava, passava un'intera notte, o un'intero giorno e lui non si fermava perchè quando iniziava a parlare, era tutto un sesseguirsi di poesie, racconti, versetti del Corano, tutto per esprimere i suoi ideali sul cammino verso Dio.

Dopo il primo capitolo del Mathnavì, persero la vita il figlio di Molavì, Alaeddin, che aveva solo 36 anni ed era un gran muftì e anche la moglie di Hesamuddin. Dopo un'interruzione di circa due anni, vennero completati altri 6 capitoli del poema. Forse l'opera sarebbe stata anche più lunga, ma Molavì non ebbe il tempo per farlo!