Dic 23, 2019 14:47 CET
  • Iraniani Famosi (240): Hafez di Shiraz (p.5)

Cari amici, anche in questa puntata proseguiamo l’avvincente discorso su Hafez, uno degli iraniani più famosi di tutti i tempi, grandioso poeta del 14esimo secolo d.C.

Prosegue su Radio Italia IRIB la presentazione delle opere di Hāfez, per esteso Khāje Shams o-Dīn Moḥammad Ḥāfeẓ-e Shīrāzī, vissuto a Shiraz tra il 1315 ed il 1390 d.C., tra i più grandi mistici e poeti della Persia.Le cinquecento canzoni di Hāfez, sono la perfezione architettonica della lingua persiana fatta spazio antropologico che si eleva al grado di sacralità estetica capace di rubare all’arabo il dominio coranico della inimitabilità linguistica divinamente ispirata. La scrittura di Hāfez (da molti chiamata lisān al-ghayb, la “lingua del mistero”) racchiude in sé il miracolo linguistico delle opere umane che piegano la perfezione delle forme di natura al sublime dell’artificio, “rubando luce alle stelle con un arco di fango”. Il mistero del sublime che gravita intorno a questa perfezione non emerge mai come disegno organizzato di un tutto —Hāfez, infatti, non solo non organizzò le sue canzoni secondo uno schema progettuale organico, ma non ebbe mai neanche il tempo di raccoglierle in una forma finale compiuta—: è questa una folgorazione che si ramifica da ogni singolo verso, strutturato secondo lo schema di un frattale che ripete le forme del cosmo in ogni sua minima parte. E così come il Tutto fuori dal tempo precipita nei versi hafeziani, allo stesso modo i tempi della storia poetica, della speculazione filosofica, e quelli degli amori per i giovani ragazzi dal petto d’argento filtrano in trasparenza da ogni pagina e ripercorrono per via in parte mimetica e in parte figurata il patto che unisce i sudditi al carisma sacro dei sovrani, tramite la venerazione della bellezza umana in carne ed ossa goduta nella forma di un simulacro del Divino.

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Proprio come gli antichi sovrani achemenidi nominavano le regioni dell’impero persiano come per imporre attraverso la lingua i confini del proprio dominio, Hāfez, in tutto il suo canzoniere, nomina spazi, regioni, città —il Bengala, il Golfo Persico, l’Asia centrale, l’Iraq, l’Anatolia e l’Azerbaijan—come fossero scale musicali tenute insieme dallo stesso tessuto linguistico: la lingua persiana, che in mancanza di una stabilità imperiale ha forgiato sin dal decimo secolo un universo simbolico amministrato dai poeti dei tre quarti dell’ecumene islamico. Tradurre queste configurazioni poetiche perfette (che “ruotano come il firmamento”, come confessò estasiato Goethe nello sforzo di imitare e portare oltre se stesso il suo “gemello persiano”) implica una costante capitolazione dei propri intenti filologici e poetici: la traduzione diventa un atto di consunzione dell’originale in cui il corpo a corpo con il testo produce materia linguistica che è costantemente altro da sé. Al traduttore esperto, infine, non interesserà tanto il pallido risultato dell’opera compiuta, quanto la vibrazione che deriva dalla contemplazione di un fulgido disegno riflesso nello specchio imperfetto di un mondo di carne invaso dall’Essere.

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Nel tempo prima dei giorni la tua bellezza irradiò gloriosa

apparve Amore all’Essere, e nell’universo il fuoco si [diffuse.

Il tuo volto scintillò quando l’angelo non sapeva cosa è [dentro amore

si fece fuoco e, per l’invidia, di fiamme investì l’uomo.

L’intelletto con quelle fiamme voleva accendere una [fiaccola

ma sfavillò il lampo di gelosia, e disordine nel mondo si [diffuse.

Il negatore anelava al luogo da cui il segreto si contempla

ma la mano dell’occulto colpì il petto di chi non ne fa [parte.

L’anima celestiale in me desiderava toccare la mela del tuo [volto

ma finì prigioniera tra i boccoli neri dei tuoi capelli.

A tutti nella ruota del destino toccò in sorte il segno della [gioia

ma fu solo il nostro cuore che vide anche l’abbraccio del [doloroso male.

Fu solo quando scolorirono per sempre le scritture del [cuore felice

che Hāfez poté scrivere il Libro esultante dell’amarti.

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