Donne in occidente (22):Feminist Film Theory
La disparità tra uomini e donne nel settore cinematografico e televisivo in Occidente è il tema che da qualche settimana stiamo trattando.
Amici dalla puntata precedente abbiamo inziato ad esaminare la visiona che il femminisimo ha del cinema.
La critica femminista con l’introduzione delle teorie di genere ha portato ad una analisi del sistema di rappresentazione cinematografico, puntando l’occhio soprattutto su come quei soggetti, che le immagini visive costruiscono, vengano trasmessi allo spettatore ed in che modo entrino in rapporto con la realtà.
Abbiamo parlato anche della Feminist Film Theory (FFT) un campo di ricerca che riguarda il rapporto fra cinema e differenza sessuale che si avvale delle riflessioni marxiste e studi di antropologia e psicanalisi.
La FFT come si può immaginare nasce da quel clima unico e mai completamente assorbito che sono gli anni della rivoluzione sessuale.
In quegli anni Lacan, uno psicanalista e psichiatra francese mediante un intervento analitico sul principio del “sistema di scambio” in Lévi-Strauss, rivelò che nei sistemi di parentela e nei rapporti tra soggetto e simbolico, la donna diventa “segno” (di scambio) e dunque oggetto di scambio.
Da qui Pam Cook, autrice e femminista britannica, giunse a un’idea della donna nel contesto del classicismo hollywoodiano, come spazio vuoto, terreno di significazione che assume senso solo se in relazione al soggetto maschile, di cui è oggetto, desiderio, scambio…in breve il femmineo non è mai soggetto bensì solo orizzonte attraverso cui il mascolino diviene pienamente soggetto.
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Clair Johnston anch’essa promotrice di un approccio femminista sul cinema dell’Occidente crede che in un mondo ordinato dalla disparità sessuale, il piacere del guardare è stato scisso in attivo/maschile e passivo/femminile.
Infatti lo sguardo maschile determinante proietta la sua fantasia sulla figura femminile, che è definita in conseguenza. Nel loro tradizionale ruolo esibizionistico ledonne sono simultaneamente guardate e mostrate, con il loro aspetto codificato per ottenere un forte impatto visivo.
Il cinema occidentale in altre parole proietta i desideri e le fantasie degli uomini.
Prendiamo in esame il film di Walsh “The revolt of Mamie Stover” (Femmina ribelle, felice traduzione!, del 1956 quindi in pieno classicismo).
Come rileva non solo Pam Cook ma la stessa Clair Johnston la protagonista, contro ogni suggerimento testuale, è solo fintamente forte, essa è piuttosto il centro (e l’oggetto) di uno scambio legato alla circolazione di denaro, e dunque ancora una volta oggetto.
Ed ora un altro esempio questa volta del film “Dance, girl dance” (1940) della Arzner, regista, montatrice e sceneggiatrice statunitense.
Nel finale di “Dance, girl dance” (Arzner, 1940) la protagonista Judy guarda al pubblico in sala con occhi disgustati.
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Ecco questo semplice procedimento costituisce una delle primissime, se non la prima, forma di “discorso squisitamente femminile” all’interno del testo filmico. L’esibizione femminile al cinema ha come postulato il collocamento della donna come oggetto dello sguardo, canalizzatore del desiderio e snodo di reminiscenze edipiche. In questo caso la vecchia e brillante retorica hollywoodiana dell’illusionismo (l’attore non guarda mai lo spettatore come anche il personaggio femminile che si esibisce non guarda mai il pubblico) viene interrotta praticando una sorta di “contraccolpo visivo” ma pur sempre all’interno di un cinema “narrativo”.
La FFT così concepita dalla Cook, dalla Johnston e ancor più dai lavori programmatici di altri critici smette di essere una suggestione votata alla ricerca delle connessioni tra la rappresentazione cinematografica del femmineo e la sua condizione quotidiana, e diviene una “teoria di campo”, che ha il merito di aver fatto del cinema un campo di interrogativi, in cui ciò che conta non è la risoluzione degli enigmi bensì la qualità degli interrogativi stessi. Nella fattispecie alla FFT infatti come abbiamo già detto viene posta la questione dei rapporti tra il cinema e la “differenza sessuale”, e cioè si cerca di indagare i procedimenti formali e linguistici attraverso cui quest’arte costruisce la sexual difference e vi riserva spazi di autodeterminazione.